di Erika Antonelli
EN – Da giorni i casi sono in aumento, oltre un milione di cittadini è positivo e il sistema dei tamponi è ingolfato da settimane. Le lunghe file davanti alle farmacie, i test fai da te introvabili e il ricorso a strutture private hanno riacceso il dibattito sul lavoro da remoto. Che certo taglia fuori alcune professioni, ma ridurrebbe per chi ne usufruisce il rischio di contagi. E, secondo i sostenitori, abbandonando la logica emergenziale della pandemia, contribuirebbe al benessere psicofisico del singolo.
Se ne accorgono anche sindacati e politica: nonostante le resistenze del ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta – che proprio a ottobre con un decreto aveva chiesto il rientro in presenza dei dipendenti pubblici – oggi diverse sigle tra cui Cgil, Flp e Confsal vogliono si torni allo smart working. Pochi giorni fa il responsabile Enti locali del Partito democratico, Francesco Boccia, dichiarava che «il lavoro agile nei servizi e nella pubblica amministrazione è un’opportunità e non un limite». La stessa linea del sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri, secondo cui «con l’aumento dei contagi dovrà essere rivisto il sistema lavorativo. Inevitabile un parziale ritorno allo smart working». Confermato dalla proroga dello stato di emergenza al 31 marzo 2022. L’estensione, chiarisce il professor Raffaele Fabozzi, ordinario di Diritto del lavoro alla Luiss, «permette di accedervi in maniera più agevolata e senza necessità di accordo individuale con il singolo lavoratore».
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